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Gli importantissimi studi di Pennebaker ci hanno permesso di scoprire i poteri della scrittura espressiva. Questa tecnica permette infatti di ridare un ordine alle emozioni ed esperienze dolorose della propria vita semplicemente scrivendole. Facendo questo esercizio anche solo per qualche minuto, ogni giorno, migliora notevolmente il nostro equilibrio individuale. I benefici della scrittura espressiva li ha scoperti anche Martina, che dalla Sardegna condivide sul suo profilo social e su quello di una delle onlus più attive nello scenario dei disturbi dell’alimentazione in Italia, la sua esperienza con l’anoressia nervosa che ha deciso di raccontare anche a noi.

1) Hai iniziato la tua battaglia contro l’anoressia da giovanissima, quale è stata la reazione delle persone intorno a te? C’è stato chi ha banalizzato oppure si sono subito allertati?

Mi sono ammalata a 13 anni.

Devo dire che a casa si sono accorti subito che qualcosa non andava, in particolare mia madre che oltre all’evidente e rapido dimagrimento ha subito notato i tipici cambiamenti psicologici e comportamentali che sono legati a questa malattia.

Io che ero sempre stata una bambina e una ragazzina estremamente solare e estroversa “all’improvviso”, lo metto virgolettato perché non so collocare precisamente il momento esatto nel quale la malattia si è intrufolata dentro di me, ho iniziato ad essere sempre triste, a non sorridere più, a isolarmi, io che avevo sempre amato e amo profondamente il contatto fisico e lo stare in mezzo a tante persone.

Ricordo che nel periodo più brutto e difficile della malattia ero arrivata ad un punto tale di annullamento e ad un’apatia così forte che alla domanda “come stai?” non ero capace di dare una risposta, era come se non avessi più accesso al mio alfabeto emotivo e ogni emozione, ogni sensazione, avevano lo stesso colore. 

Mia sorella all’epoca era piccola, ma abbastanza grande da poter percepire e capire che qualcosa non andava. Lei è stata fondamentale per me, soprattutto in un momento tragico nel quale, stremata da tutta quella sofferenza, mi sono letteralmente trovata sul balcone del mio terrazzo con l’intenzione di buttarmi di sotto ed è stato per lei che ho stretto i denti e non l’ho fatto. Ancora oggi quando ci ripenso le sono immensamente grata per esserci stata ed esserci. Lei è un grandissimo punto di rifermento per me, e una grandissima risorsa.

Mio padre ha fatto un po’ più fatica ad accettare la mia malattia, una malattia psichiatrica, una di quelle cose che nel profondo del cuore di tutti spaventa, una di quelle cose che non si vede e non si sente perché quando un cuore va in pezzi nessuno se ne accorge anche se fa un rumore assordante. Credo che la cosa della quale proprio non riusciva a capacitarsi fosse quell’intento di autodistruggermi che portavo avanti; in effetti era proprio quello che volevo: punirmi, annientarmi, sparire. Con il tempo ha capito però e devo dire che la mia famiglia è stata davvero super nel supportarmi, non hanno esitato a portarmi ovunque per farmi curare, anche quando si è trattato di dover cercare fuori dalla mia regione, la Sardegna. 

2) Quali terapie e percorsi hai seguito? Quali pensi siano stati per te più efficaci?

La diagnosi di anoressia nervosa mi è stata fatta da una neuropsichiatra infantile in un ospedale di Cagliari. A quel punto ho iniziato nella mia città, Olbia, un percorso psicoterapico che si è però rivelato fallimentare perché la psicologa non era specializzata nella cura dei disturbi alimentari. Qui mi sento di fare un appello accorato: da un disturbo alimentare si può guarire ma è necessario fidarsi e affidarsi a professionisti specializzati e competenti che attraverso un lavoro di equipe possano lavorare sulla malattia in tutta la sua complessità. Non si può improvvisare.

Con il peggiorare delle mie condizioni soprattutto psicologiche, il peso e il bmi infatti, al contrario di quanto ancora oggi spesso si pensi, non sono l’unico criterio per definire lo stato di gravità di un paziente, venni ricoverata nella neuropsichiatria sopracitata. 

Fu un ricovero sostanzialmente inutile perché si, ripresi un po’ di peso, ma il mio disturbo e i miei demoni non si erano spostati di mezzo millimetro e continuavano ad essere invadenti e pervasivi. 

Finito il ricovero cominciai un nuovo percorso, sia da un punto di vista psicologico che nutrizionale, questa volta con chi era del mestiere. Nonostante fossi seguita da figure competenti non c’erano segni di miglioramento (si possono avere i migliori terapeuti del mondo ma se non scatta qualcosa dentro a livello di consapevolezza e motivazione non ci si muove di mezzo millimetro) e quindi decidemmo di comune accordo di tentare la strada di un ricovero in regime residenziale in un centro specializzato. Allora nella mia regione non c’era nessuna struttura, di conseguenza, entrammo in un circolo burocratico per ottenere l’autorizzazione per un ricovero extra regionale. Ricordo che non fu semplice, ci sentimmo dire frasi del tipo “non c’è bisogno, non è mica così grave” ma alla fine il tutto andò in porto. Nel 2016 venni ricoverata a Palazzo Francisci, a Todi, e lì feci un ricovero di 3 mesi. Quella fu sicuramente la svolta. 

Da lì uscì non guarita, perché non si guarisce in 3 mesi, ma con molta più consapevolezza e strumenti per combattere le quotidiane battaglie di questa guerra. 

3) Ti abbiamo conosciuto attraverso i tuoi contenuti condivisi sui social, pensi che questi abbiano un ruolo positivo o negativo rispetto a come sono affrontati i disturbi alimentari?

Mi trovo spesso ad affrontare spesso questo tema. Penso che i social siano un’arma a doppio taglio, soprattutto se li si usa senza la consapevolezza che nel 90% dei casi ciò che si vede in termini di foto, video, condizioni di vita, non è reale. Sarebbe banale e anche ingiusto nei confronti di chi soffre dire che ci ammala di anoressia o di bulimia perché si vedono le foto delle influencer, queste sono malattie della mente e dell’anima profondamente radicate, ma sicuramente se si parte già da una base si disagio, di senso di inadeguatezza, di paura di non essere all’altezza degli altri e del mondo, vedere queste persone che rispondono perfettamente ai tre imperativi per eccellenza della nostra società ovvero essere magri, belli e  felici, è come buttare benzina sul fuoco; ecco perché secondo me il punto centrale è proprio la consapevolezza, la consapevolezza che ciò che si vede è spessissimo modificato, artificioso, imbellettato. Instagram è una vetrina e nelle vetrine si espongono i vestiti belli, di certo non quelli difettosi e con la cerniera rotta. 

Devo dire che nell’ultimo periodo, soprattutto dopo la manifestazione che si è tenuta l’8 Ottobre davanti al Ministero della Salute alla quale ho anch’io partecipato, si sta parlando molto di più di queste problematiche. Se ne parlava già da prima, vi sono da anni professionisti, associazioni che fanno sensibilizzazione su questo tema, ma è come se quella piazza fosse stata un’enorme cassa di risonanza, l’inizio di un passaparola che sta continuando ad andare avanti. Ecco che qui il social diventa un’arma molto preziosa, un’agorà di confronto, di racconto, di mutuo aiuto anche, io stessa non sono un medico ma attraverso la mia esperienza, nel mio piccolo e nei limiti dell’etica, cerco di aiutare chi mi scrive, anche “semplicemente” dicendo loro che non sono sole, che da questo inferno si può uscire. Questa, la speranza, qualcuno che vedi che ce l’ha fatta, la trovo una cosa fondamentale. 

4) Ti vengono in mente delle canzoni, film, etc. che possano descrivere le emozioni di chi soffre di un disturbo alimentare?

Si. È una canzone forse a molti sconosciuta perché è del 1980 ed è “Per Elisa” cantata da Alice. 

Parla della droga, dell’eroina in particolare, ma trovo che racchiuda in maniera esaustiva cosa significhi essere ammalati di un disturbo alimentare. La malattia diventa a tutti gli effetti il centro e il perno della tua esistenza. Ora, mi rendo conto che l’associazione con l’eroina possa sembrare un po’ forte, ma ciò che succede dentro è uguale. L’anoressia mi aveva fatta sua. Non ero più mia, ero sua. Anzi non ero più. L’anoressia ti consuma, ti logora da dentro, ti snatura completamente. 

“Non sai più distinguere che giorno è”, per tornare alla canzone. Non sai più cosa ti piace e cosa non. 

Ricordo che quando andavo al supermercato nel reparto dei biscotti stavo lì ad osservarli e a mangiarli con gli occhi, perché non potevo permettermi di gustare qualcosa di buono, ed ero arrivata ad un punto in cui non ricordavo nemmeno più quali mi piacessero e quali no, non ricordavo il loro sapore. Lei mi aveva tolto tutto, tutto quello che di bello avevo dentro e fuori. 

Mi aveva tolto il cibo, i sorrisi, le amicizie, l’amore per me stessa e per gli altri, la vita. Mi aveva messa in gabbia. Braccata con le spalle al muro.

Anziché una pera di eroina, tutti i giorni, più volte al giorno, mi facevo di Lei. Di disperazione, di odio per me stessa, di brutture, di angosce, di ossessioni, di nero, di morte. Eppure, l’avevo “scelta”, scelta virgolettato perché non si sceglie di ammalarsi, ci si ammala e basta, perché mi sembrava la soluzione a tutti i miei problemi. 

E all’inizio in effetti vedere quel numero scendere sulla bilancia mi dava questa botta d’estasi, di felicità, a cui però seguiva immediatamente dopo la necessità di un’altra dose,. “ancora, devo scendere ancora, così non basta, ancora più giù, ancora meno”. 

E così proprio come succede con la droga, ho perso il controllo ed era lei che controllava me, da padrona ero diventata schiava. Ero fottuta. 

Cominciava quindi la sfida più grande: rendermi conto di avere un problema, e poi la faticosa risalita, costellata da tante ricadute che sono però state imprescindibili e fondamentali per la guarigione. 

5) Ci hai raccontato di esserti impegnata per molti anni in campagne di sensibilizzazione nelle scuole e da poco sei entrata nella squadra della Onlus di cui sei parte. Quali attività svolgi/hai svolto? Quali ti hanno particolarmente segnato?

Sono da poco entrata a far parte della squadra della Onlus, nell’area di scrittura.

Scrivere è una cosa che faccio sin da quando ero piccola e durante gli anni della malattia ho scritto tantissimi diari attraverso i quali oggi sto cercando di comporre il racconto della mia storia che spero, è il mio sogno nel cassetto, possa un giorno diventare un libro (per adesso sto caricando i capitoli su Wattpad).

Se devo essere sincera ho iniziato relativamente da poco a fare attivismo. È successo per caso che alla manifestazione di cui ho parlato sopra ho incontrato un giornalista al quale ho raccontato la mia storia in un’intervista. Da li è nato un servizio nel quale abbiamo affrontato appunto la tematica dei disturbi alimentari. Lì è scattato qualcosa, nel senso che mi sono sentita capace e in grado di parlare di questo argomento che avevo sempre tenuto per me e per le persone a me care, e ho sentito la spinta fortissima di non fermarmi li. Sul mio profilo Instagram ho cominciato quindi a parlare sempre di più di questo, attraverso post, dirette, collaborazioni. 

Diverse volte ho parlato con delle classi del liceo, una con due classi della scuola media. Il parlare con i ragazzi mi crea sempre un’emozione fortissima, credo che tra tutte sia la cosa più forte che si possa provare. Così come credo che non sia mai troppo parlarne tanto e che sia fondamentale farlo a scuola perché è il luogo dove sino alla maggiore età ognuno di noi passa più della metà della propria giornata.   

Ringraziamo di cuore Martina per averci dedicato queste importanti e preziosissime riflessioni, a lei auguriamo di poter realizzare il sogno di tenerle tra le mani sotto forma di libro. Per voi che leggete le sue parole possano invece essere un nuovo capitolo verso la cura di voi.

Intervistata: Martina Ronchi

A Cura di: Psicologa Giulia Rocchi

Giulia Rocchi