Se Cartesio e la sua fortuna ci hanno insegnato – erroneamente – che siamo esseri divisi tra una sostanza materiale (il corpo) e una razionale (la mente), la pandemia e la Covid19 hanno concretizzato questo pregiudizio sull’ambiguità costitutiva di noi esseri umani, rendendolo ancora più evidente. Prima dell’esplosione epidemiologica la divisione tra mente e corpo abitava il nostro senso comune, senza che però intaccasse la nostra esistenza quotidiana, fatta in realtà dall’unità di processi fisiologici e psichici inseriti in un contesto sociale.
La sfida posta da un nemico invisibile, il virus, ci ha però costretti a separare questi tre aspetti nella vita di tutti i giorni, anche se per un tempo circoscritto. Ciò che veniva soltanto separato nell’analisi teorica e per fini scientifici, con il lockdown, si concretizzava nelle pratiche del quotidiano.
Il corpo, veicolo del virus, veniva isolato nelle case, fuori dal contesto sociale, e qualsiasi contatto interpersonale si sarebbe potuto avere soltanto attraverso il virtuale, il metaverso: un mondo parallelo che esiste grazie a dispositivi digitali che non necessitano delle compresenza fisica di più individui per far sì che essi possano entrare in comunicazione.
Siamo passati dal contatto alla comunicazione, trasformando il campo della socialità.
Questa situazione ha fatto sì che il pensiero cardine si muovesse verso l’escogitare piani di lotta contro il virus, metabolizzare i cambiamenti – traumatici per molti – che il nuovo stato di cose ci costringeva ad attuare, rimanere in contatto con i nostri cari e amici attraverso i dispositivi digitali, smart-working e didattica a distanza.
Il corpo malato o da sottrarre alla malattia ha dato spazio e messo pressione alle nostre menti, aggrappate a computer e smartphone, gli unici strumenti per avere una parvenza di continuità con ciò che era “prima”.
Ma cos’era “prima”? Per semplificare si potrebbe dire che prima della covid19, non c’era la covid19; in questo modo diremmo tutto in due parole.
Sicuramente c’era il corpo, svincolato da dispositivi protettivi e separanti, e non era così subordinato alla mente; o meglio, ciò che si poteva fare con il corpo era difficilmente riproducibile “soltanto” con la mente.
La vera novità rispetto al “prima” sono le accelerazioni nel campo delle tecnologie digitali e le loro conseguenze, che hanno modificato drasticamente il modo di lavorare di tutti ma in particolare di una classe lavoratrice essenziale quella dei servizi primari (corrieri, riders, commessi dei supermercati, infermieri e medici) contribuendo alla creazione di un mondo che lascia indietro chi non sa come adattare il proprio lavoro al digitale.
Assistiamo a grandi investimenti nelle infrastrutture per internet ad alta velocità, la proliferazione di app delivery, di compravendita online sia di nuovo che usato, app per videochiamate e videoconferenze e l’aumento degli utenti dei social network, oggi utilizzati anche dai più adulti e anziani. Durante e dopo il primo grande lockdown app come Tinder hanno visto un aumento vertiginoso, quasi come se questa “clausura” del corpo cercasse disperatamente una ri-socializzazione dei propri impulsi, per mesi esauriti esclusivamente nell’intimità individuale.
Si sono accorciate moltissime delle distanze fisiche, nel senso che lo smart-working ha dimostrato quanto – forse – sia possibile evitare spostamenti molto frequenti per meeting, riunioni e conferenze, a discapito del work-life balance; ci sono lavoratori che hanno beneficiato di questa novità e lavoratori che ne sono rimaste vittima.
Questo sovraccarico mentale e eccesso di “virtuale” sono aspetti non ancora giunti alla loro esasperazione, anzi sembrano essere semplicemente agli albori di un’ascesa inarrestabile. Come se tutte queste accelerazioni fossero il preludio di una realtà più grande che sarà, riassumibile nel nuovo progetto dell’azienda Facebook che – non a caso – cambia nome in “Meta”: prefisso verso cui noi occidentali tendiamo inesorabilmente fin dai tempi di Aristotele; “Meta” dal greco antico significa “oltre”, “al di là”, prefisso che, agganciato al sostantivo “fisica”, ci illude – concausa la pandemia – che non abbiamo più bisogno del corpo o del piano della realtà concreta per vivere.
Ma la mente è nel corpo e il corpo è anche mente, perciò non va sottovalutato, né sopravvalutato nessuno dei due aspetti, come invece è stato fatto – forse per mancanza di opzioni – durante questa pandemia. Il voler preservare il corpo fisico dal pericolo fisiologico del virus ha sovraesposto, sovraccaricato e spesso surriscaldato la nostra mente, come succede in un computer con troppe applicazioni aperte per troppo tempo, ma in quest’ottica non si vede ancora alcun tipo di soluzione che venga dall’alto degli organi dello Stato. I 50.000.000 di euro proposti, ma non approvati, a favore della salute mentale – un bene di lusso che lo Stato fatica a finanziare per chi non può permetterselo – rimangono ancora appannaggio delle iniziative private, volontaristiche e associative del welfare dal basso. Molti psicologi e psicoterapeuti durante i mesi di lockdown hanno sperimentato nuovi metodi per sostenere vecchi e nuovi pazienti, alcuni di questi si stanno mettendo a punto, altri vengono elaborati in accademia ed altri ancora sono e saranno proposti in chiave digitale e virtuale.
Oggi più che mai la nostra società sta segnalando diverse difficoltà nel risolvere in maniera sociale le difficoltà individuali, forse perché quella in cui viviamo é l’epoca storica più attraversata da numerosi e repentini mutamenti portati come trofeo dall’avanzamento tecnologico. Tuttavia i mutamenti a cui siamo sottoposti non colgono sempre pronta la società, anzi sembrano essere la causa più frequente di disturbi e difficoltà di adattamento nell’ambito privato ma anche pubblico.
Che ruolo avranno le scienze mediche e umane nei prossimi anni? Riusciranno, con l’aiuto delle innovazioni digitali, a ridurre questa distanza tra mente e corpo, tra virtuale e biologico e garantire per tutti una soglia minima di salute e benessere che sono sempre insieme fisici e mentali?
Come suggeriva Darwin solo chi si adatta al cambiamento sopravvive, quindi la risposta, forse anche ovvia, è che dipende dalla nostra capacità, come genere umano, di stare al passo con l’evoluzione.
Alessandro Viscomi